venerdì 23 maggio 2014

IL GIORNO DEI RAGAZZI DI STRADA di Barbara Fiorio


Il giorno dei ragazzi di strada



Quel pomeriggio Bea era a casa di Dodo e di suo fratello Cicci insieme a tutti i bambini del palazzo.
Dodo e Cicci si erano trasferiti lì da poco, al posto di Filippo. Venivano da Milano, non facevano altro che ricordarlo. A sentir loro, tutto, a Milano, era meglio. Era meglio il posto dove vivevano, le cose che mangiavano, quelle che indossavano, i negozi di giocattoli, i pulmini della scuola, le strade e persino la focaccia. Secondo loro, persino la focaccia di Milano era meglio di quella di Genova. Loro erano più fighi dei genovesi – avevano detto proprio fighi, anche se era una parola che non si poteva dire –, e un giorno sarebbero tornati a Milano. Non prima di una decina d’anni, però, perché il loro papà era stato mandato lì a occuparsi di qualcosa di serio in una televisione.
A metà pomeriggio la signora Costanza, la mamma di Dodo, chiese a Bea un aiuto per preparare la merenda. Era una donna bellissima, bella come la Barbie Hawaii. Ogni tanto Bea la guardava di nascosto, chiedendosi se da grande sarebbe diventata così bella.
Mentre impilavano bicchieri e tovaglioli, le parlava come tra adulti, cosa che piaceva molto a Bea, anche se rischiava di perdere quasi tutta la puntata di Capitan Harlock che gli altri stavano guardando di là.
– Mi ha detto Dodo che vuoi fare il capo, – le disse prendendo la Fanta dal frigo.
Non voleva fare il capo, le spiegò Bea, lei era il capo. Da quando Filippo se n’era andato, lei, con i suoi dieci anni e sette mesi, era la più grande. Quindi, di diritto, il nuovo capo dei bambini del palazzo. 
– Ma tu sei una femmina, – le rispose la signora Costanza, guardandola nello stesso modo in cui la guardava la nonna quando rimandava di un sacco di tempo certe risposte.
Bea non riusciva a capire cosa c’entrasse il fatto di essere una femmina. A scuola studiavano tutti le stesse cose, venivano interrogati tutti le stesse volte. Giocavano a calcio, a nascondino, a rincorrersi, a mangiare girelle di liquirizia nel minor tempo possibile, a far rimbalzare le pietre piatte sull’acqua. Facevano gare in bici, prendevano le lucertole con le mani, a Carnevale bastonavano la pentolaccia a turno e la domenica pomeriggio andavano a vedere gli stessi film al cinema. L’unica differenza che le risultava esserci tra maschi e femmine, era che i maschi facevano la pipì in piedi, le femmine sedute o accucciate. Ma che il modo di fare pipì fosse determinante per essere il capo dei bambini del palazzo, le sembrava assurdo.
– Cosa c’entra che sono una femmina? – domandò impilando un panino al prosciutto su uno con la sottiletta.
La signora Costanza le lanciò un’occhiata di lato, come se fosse contenta di non avere figlie femmine. – Un capobanda deve essere maschio. Un maschio non può avere come capo una femmina.
La spiegazione era tutta lì. Solo che Bea continuava a non capire.
La maestra era una femmina, e nessuno dei suoi compagni si ribellava. Eppure lei li comandava tutti, li metteva in castigo e dava un sacco di ordini. Le mamme erano femmine, e i bambini obbedivano lo stesso, salvo quando disobbedivano, ma non perché le mamme fossero femmine.
Lei stessa era stata caposquadra nella caccia al tesoro, a guardia e ladri e nell’epocale battaglia tra i bambini dello scivolo e quelli del nespolo. Avevano anche vinto. Era un ottimo capo, lo aveva dimostrato. Difendeva i deboli, aveva sempre un mucchio di idee per nuovi giochi e sapeva picchiare come gli altri. E comunque era più grande di Dodo. Non si potevano cambiare le regole senza un buon motivo.
Alla fine del pomeriggio, però, Dodo annunciò di essere lui il capo. Alcuni bambini guardarono per terra, altri dissero sottovoce che per loro andava bene anche Bea, ma nessuno volle combattere quella battaglia.
Così Dodo capeggiò.
Ma poi ci fu il giorno dei ragazzi di strada.
 
I ragazzi di strada facevano paura a tutti i bambini del palazzo. Non avevano un giardino condominiale per giocare, dovevano accontentarsi del marciapiede e di quel muretto alla fine dell’aiuola su cui ogni tanto mettevano in vendita i loro fumetti. Erano poveri, aveva ipotizzato sottovoce il Paolino. Chi non aveva un giardino condominiale non poteva che essere povero, d’altro canto.
Qualche volta i ragazzi di strada avevano provato a sedersi davanti al cancello del palazzo, guardando tra le sbarre. Un mercoledì, uno di loro aveva pure suonato a un citofono a caso, facendosi aprire. Quello era stato un vero momento di terrore. I bambini, impreparati all’invasione, avevano urlato ed erano corsi in casa di Max, l’unico al primo piano. Dal terrazzo avevano controllato la situazione, scoprendo che i ragazzi di strada li avevano presi in giro e non erano entrati. Erano ancora lì fuori, che ridevano e li salutavano dal muretto. Il cancello era accostato, sfacciato e traditore.
Il giorno dei ragazzi di strada, il pulmino del doposcuola lasciò Bea davanti al cancello, come ogni pomeriggio, e lei li trovò tutti lì, ad aspettarla.
– Ciao, io sono Alessandro, – le disse uno alto alto, con i capelli ricci e la maglia a righe.
– Ciao, io sono Bea.
– Volevamo chiederti una cosa.
Le chiesero di poter entrare nel giardino. Non avrebbero fatto danni, volevano solo vederlo da vicino, usare lo scivolo, giocarci un po’. Anche con lei, se le andava. Avevano portato un pallone: li avevano visti giocare a calcio e avevano pensato di proporre una partita tutti insieme.
– Perché non siete entrati l’altra volta? – domandò lei.
– Perché non è casa nostra. Ma voi ci prendete sempre in giro. Volevamo farvi vedere che, se volevamo, potevamo entrare.
Erano gentili. La nonna avrebbe detto che erano educati. E poi era evidente che il capo era il più grande. Rispettavano le regole, loro.
Un dubbio le strinse gli occhi. – Lo state chiedendo a me perché sono una femmina?
Il più piccolo la guardò incuriosito. – Lo chiediamo a te perché sei l’unica che non ci ha mai presi in giro.
Era vero, sembrava un buon motivo.
Nel frattempo, i bambini del palazzo osservavano la scena dal giardino. Bea era prigioniera dei ragazzi di strada, squittì qualcuno. Non farli entrare, urlò un altro.
Sciocchi. Aprì e li invitò.
Non ci fu nessuna partita di pallone, perché la squadra di casa preferì fuggire e rintanarsi sul terrazzo del primo piano, da dove osservare gli invasori che giocavano con Bea. E mentre Dodo la tacciava di tradimento, uno sguardo di ammirazione passò negli occhi degli altri bambini del palazzo.
Del resto era la più grande, bisbigliò qualcuno al riparo dall’udito di Dodo.

Una settimana dopo, alla stessa ora, i ragazzi di strada aspettarono Bea davanti al cancello, con una scatola da scarpe che aveva il coperchio bucherellato. Un regalo per ringraziarla di averli fatti giocare nel giardino, le spiegò Alessandro.
Era un criceto color champagne, si chiamava Gigia. Luca, uno di loro, non poteva più tenerlo. Avrebbe dovuto riportarlo al negozio di animali, ma qualcuno aveva suggerito di darlo a lei, e tutti avevano votato per quella decisione.
Fu il suo primo criceto. Sarebbero venuti Gorgonzola, Cianuro e Saponetta, dopo. Ma la Gigia dei ragazzi di strada fu il suo primo animale.
– Perché hanno paura di noi? – le chiese Alessandro guardando verso il terrazzo del primo piano, da cui spuntavano alcune teste e molti occhi.
Anche lei aveva avuto paura di loro, gli rispose. Perché erano lì fuori, senza un posto dove stare. Non se la sentì di dire che secondo loro erano poveri.
– Chi è il più grande tra voi? Potremmo presentarci, così facciamo amicizia.
Era lei. Di un mese e mezzo. 
– Allora sei il capo.
No, non lo era. Perché era una femmina.
L’argomento non convinse nemmeno Alessandro.
– E chi è il capo, allora? – le domandò.
– Dodo, – rispose lei. – Quello col fratello piccolo, la spada laser e la roulotte di Big Jim.
Alessandro annuì, aveva capito chi era.

Qualche giorno dopo, Dodo suonò alla porta di Bea.
Era solo, si stropicciava le dita e guardava spesso per terra.
– Volevo chiederti una cosa, – le disse. – Ma deve restare un segreto tra noi.
Non aveva problemi a tenere segreti, lei. Sapeva che erano come le sterline d’oro che la zia le regalava a Natale. Meglio custodirli sempre al sicuro.
Dodo le raccontò di essere andato insieme a Marco e Max fino al bar a comprare il gelato. I ragazzi di strada erano lì, sul loro muretto, e li avevano presi in giro. Ma soprattutto, quello più grande lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto: «Ciao, Dodo. Ho saputo che hai paura delle femmine». E tutti avevano riso. Pure Marco e Max, anche se poi avevano fatto finta di non aver riso. Ma avevano riso, li aveva visti.
– E allora? – gli domandò lei.
Dodo la guardò e fece un respiro più forte. – Volevo chiederti di dirgli di non prendermi più in giro davanti agli altri. Ma non dirgli che te l’ho chiesto io. E non dirlo a nessuno.
Bea ci pensò su un momento, poi chinò la testa su un lato.
– E tu cosa mi dai in cambio?
Da quel momento lui restò il capo, ma lei comandò.



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