Il giorno dei ragazzi di strada
Quel pomeriggio Bea era a casa di Dodo e di suo
fratello Cicci insieme a tutti i bambini del palazzo.
Dodo e Cicci si erano trasferiti lì da poco, al
posto di Filippo. Venivano da Milano, non facevano altro che ricordarlo. A
sentir loro, tutto, a Milano, era meglio. Era meglio il posto dove vivevano, le
cose che mangiavano, quelle che indossavano, i negozi di giocattoli, i pulmini
della scuola, le strade e persino la focaccia. Secondo loro, persino la
focaccia di Milano era meglio di quella di Genova. Loro erano più fighi dei
genovesi – avevano detto proprio fighi, anche se era una parola che non si
poteva dire –, e un giorno sarebbero tornati a Milano. Non prima di una decina
d’anni, però, perché il loro papà era stato mandato lì a occuparsi di qualcosa
di serio in una televisione.
A metà pomeriggio la signora Costanza, la mamma
di Dodo, chiese a Bea un aiuto per preparare la merenda. Era una donna
bellissima, bella come la Barbie Hawaii. Ogni tanto Bea la guardava di
nascosto, chiedendosi se da grande sarebbe diventata così bella.
Mentre impilavano bicchieri e tovaglioli, le
parlava come tra adulti, cosa che piaceva molto a Bea, anche se rischiava di
perdere quasi tutta la puntata di Capitan Harlock che gli altri stavano
guardando di là.
– Mi ha detto Dodo che vuoi fare il capo, – le
disse prendendo la Fanta dal frigo.
Non voleva fare il capo, le spiegò Bea, lei era il capo. Da quando
Filippo se n’era andato, lei, con i suoi dieci anni e sette mesi, era la più
grande. Quindi, di diritto, il nuovo capo dei bambini del palazzo.
– Ma tu sei una femmina, – le rispose la signora
Costanza, guardandola nello stesso modo in cui la guardava la nonna quando
rimandava di un sacco di tempo certe risposte.
Bea non riusciva a capire cosa c’entrasse il
fatto di essere una femmina. A scuola studiavano tutti le stesse cose, venivano
interrogati tutti le stesse volte. Giocavano a calcio, a nascondino, a
rincorrersi, a mangiare girelle di liquirizia nel minor tempo possibile, a far
rimbalzare le pietre piatte sull’acqua. Facevano gare in bici, prendevano le
lucertole con le mani, a Carnevale bastonavano la pentolaccia a turno e la
domenica pomeriggio andavano a vedere gli stessi film al cinema. L’unica
differenza che le risultava esserci tra maschi e femmine, era che i maschi
facevano la pipì in piedi, le femmine sedute o accucciate. Ma che il modo di
fare pipì fosse determinante per essere il capo dei bambini del palazzo, le
sembrava assurdo.
– Cosa c’entra che sono una femmina? – domandò
impilando un panino al prosciutto su uno con la sottiletta.
La signora Costanza le lanciò un’occhiata di
lato, come se fosse contenta di non avere figlie femmine. – Un capobanda deve
essere maschio. Un maschio non può avere come capo una femmina.
La maestra era una femmina, e nessuno dei suoi
compagni si ribellava. Eppure lei li comandava tutti, li metteva in castigo e
dava un sacco di ordini. Le mamme erano femmine, e i bambini obbedivano lo
stesso, salvo quando disobbedivano, ma non perché le mamme fossero femmine.
Lei stessa era stata caposquadra nella caccia al
tesoro, a guardia e ladri e nell’epocale battaglia tra i bambini dello scivolo
e quelli del nespolo. Avevano anche vinto. Era un ottimo capo, lo aveva
dimostrato. Difendeva i deboli, aveva sempre un mucchio di idee per nuovi
giochi e sapeva picchiare come gli altri. E comunque era più grande di Dodo.
Non si potevano cambiare le regole senza un buon motivo.
Alla fine del pomeriggio, però, Dodo annunciò di
essere lui il capo. Alcuni bambini guardarono per terra, altri dissero
sottovoce che per loro andava bene anche Bea, ma nessuno volle combattere
quella battaglia.
Così Dodo capeggiò.
Ma poi ci fu il giorno dei ragazzi di strada.
I ragazzi di strada facevano paura a tutti i bambini del palazzo. Non avevano un giardino condominiale per giocare, dovevano accontentarsi del marciapiede e di quel muretto alla fine dell’aiuola su cui ogni tanto mettevano in vendita i loro fumetti. Erano poveri, aveva ipotizzato sottovoce il Paolino. Chi non aveva un giardino condominiale non poteva che essere povero, d’altro canto.
Qualche volta i ragazzi di strada avevano
provato a sedersi davanti al cancello del palazzo, guardando tra le sbarre. Un
mercoledì, uno di loro aveva pure suonato a un citofono a caso, facendosi
aprire. Quello era stato un vero momento di terrore. I bambini, impreparati
all’invasione, avevano urlato ed erano corsi in casa di Max, l’unico al primo
piano. Dal terrazzo avevano controllato la situazione, scoprendo che i ragazzi
di strada li avevano presi in giro e non erano entrati. Erano ancora lì fuori,
che ridevano e li salutavano dal muretto. Il cancello era accostato, sfacciato
e traditore.
Il giorno dei ragazzi di strada, il pulmino del
doposcuola lasciò Bea davanti al cancello, come ogni pomeriggio, e lei li trovò
tutti lì, ad aspettarla.
– Ciao, io sono Alessandro, – le disse uno alto
alto, con i capelli ricci e la maglia a righe.
– Ciao, io sono Bea.
– Volevamo chiederti una cosa.
Le chiesero di poter entrare nel giardino. Non
avrebbero fatto danni, volevano solo vederlo da vicino, usare lo scivolo,
giocarci un po’. Anche con lei, se le andava. Avevano portato un pallone: li
avevano visti giocare a calcio e avevano pensato di proporre una partita tutti
insieme.
– Perché non siete entrati l’altra volta? –
domandò lei.
– Perché non è casa nostra. Ma voi ci prendete
sempre in giro. Volevamo farvi vedere che, se volevamo, potevamo entrare.
Erano gentili. La nonna avrebbe detto che erano
educati. E poi era evidente che il capo era il più grande. Rispettavano le
regole, loro.
Un dubbio le strinse gli occhi. – Lo state
chiedendo a me perché sono una femmina?
Il più piccolo la guardò incuriosito. – Lo
chiediamo a te perché sei l’unica che non ci ha mai presi in giro.
Era vero, sembrava un buon motivo.
Nel frattempo, i bambini del palazzo osservavano
la scena dal giardino. Bea era prigioniera dei ragazzi di strada, squittì
qualcuno. Non farli entrare, urlò un altro.
Sciocchi. Aprì e li invitò.
Non ci fu nessuna partita di pallone, perché la
squadra di casa preferì fuggire e rintanarsi sul terrazzo del primo piano, da
dove osservare gli invasori che giocavano con Bea. E mentre Dodo la tacciava di
tradimento, uno sguardo di ammirazione passò negli occhi degli altri bambini
del palazzo.
Del resto era la più grande, bisbigliò qualcuno
al riparo dall’udito di Dodo.
Una settimana dopo, alla stessa ora, i ragazzi
di strada aspettarono Bea davanti al cancello, con una scatola da scarpe che
aveva il coperchio bucherellato. Un regalo per ringraziarla di averli fatti
giocare nel giardino, le spiegò Alessandro.
Era un criceto color champagne, si chiamava
Gigia. Luca, uno di loro, non poteva più tenerlo. Avrebbe dovuto riportarlo al
negozio di animali, ma qualcuno aveva suggerito di darlo a lei, e tutti avevano
votato per quella decisione.
Fu il suo primo criceto. Sarebbero venuti
Gorgonzola, Cianuro e Saponetta, dopo. Ma la Gigia dei ragazzi di strada fu il
suo primo animale.
– Perché hanno paura di noi? – le chiese
Alessandro guardando verso il terrazzo del primo piano, da cui spuntavano
alcune teste e molti occhi.
Anche lei aveva avuto paura di loro, gli
rispose. Perché erano lì fuori, senza un posto dove stare. Non se la sentì di
dire che secondo loro erano poveri.
– Chi è il più grande tra voi? Potremmo
presentarci, così facciamo amicizia.
Era lei. Di un mese e mezzo.
– Allora sei il capo.
No, non lo era. Perché era una femmina.
L’argomento non convinse nemmeno Alessandro.
– E chi è il capo, allora? – le domandò.
– Dodo, – rispose lei. – Quello col fratello
piccolo, la spada laser e la roulotte di Big Jim.
Alessandro annuì, aveva capito chi era.
Qualche giorno dopo, Dodo suonò alla porta di
Bea.
Era solo, si stropicciava le dita e guardava
spesso per terra.
– Volevo chiederti una cosa, – le disse. – Ma
deve restare un segreto tra noi.
Non aveva problemi a tenere segreti, lei. Sapeva
che erano come le sterline d’oro che la zia le regalava a Natale. Meglio
custodirli sempre al sicuro.
Dodo le raccontò di essere andato insieme a
Marco e Max fino al bar a comprare il gelato. I ragazzi di strada erano lì, sul
loro muretto, e li avevano presi in giro. Ma soprattutto, quello più grande lo
aveva guardato negli occhi e gli aveva detto: «Ciao, Dodo. Ho saputo che hai
paura delle femmine». E tutti avevano riso. Pure Marco e Max, anche se poi
avevano fatto finta di non aver riso. Ma avevano riso, li aveva visti.
– E allora? – gli domandò lei.
Dodo la guardò e fece un respiro più forte. –
Volevo chiederti di dirgli di non prendermi più in giro davanti agli altri. Ma
non dirgli che te l’ho chiesto io. E non dirlo a nessuno.
Bea ci pensò su un momento, poi chinò la testa
su un lato.
– E tu cosa mi dai in cambio?
Da quel momento lui restò il capo, ma lei comandò.
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